Se ne sono andate così, come erano venute. Parliamo delle grandi epidemie della storia: l’influenza spagnola del 1918 e, prima, la peste del Trecento del Boccaccio, poi quella del Seicento del Manzoni e, infine, quella dell’ Ottocento. E anche di infezioni più recenti, come la Sars, la sindrome respiratoria acuta da Coronavirus del 2002: scomparsa.
Che ne sarà, allora, della nuova pandemia da Coronavirus, il Sars-CoV-2? E che cosa ci insegna la historia magistra? Lo chiediamo a un illustre storico della medicina, Giorgio Cosmacini, docente all’Università Vita e Salute del San Raffaele di Milano, autore di decine di libri e quasi novantenne, che si definisce «un vecchio medico (per l’esperienza) e un medico vecchio (per l’età accompagnata, però, da una mente sopraffina)». Tant’è che nel sottotitolo del suo ultimo libro Concetti di salute e malattia al tempo del coronavirus, in uscita da Pantarei, sta scritto:«Manuale per longevi di oggi e di domani».
Professore, come vede questa nuova pandemia?
«I virologi ci dicono che il nuovo coronavirus non ha mutato struttura, dinamica, virulenza. Ci crediamo. Gli epidemiologi affermano che non ha perso la sua capacità diffusiva. Crediamo anche a loro. Ma la terza voce, quella dei clinici, che vedono i malati, ci racconta che l’aggressività del virus appare ridotta e l’organismo umano reagisce meglio».
E allora torniamo alla lezione della storia. È vero che le epidemie seguono un loro ciclo naturale e poi scompaiono?
«La Spagnola è stata combattuta con le stesse misure igienico-sanitarie di oggi: distanziamento sociale, quarantene, mascherine. Poi si è estinta per lisi, con progressiva attenuazione della sua aggressività, nel giro di un anno e mezzo».
Sì, ma ha fatto milioni di morti…
«Certo, allora aveva colpito una popolazione che usciva dalla guerra e soffriva la fame. E all’epoca la medicina non poteva contare su vaccini e farmaci, tranne il salicilato (il precursore della nostra aspirina, ndr). I medici la chiamavano “epidemia-sfinge”, perché non lasciava trapelare nulla di sé. Circolavano tante teorie su questa malattia quanti erano i dottori. Un po’ come oggi con il coronavirus…».
Ritorniamo indietro nel tempo, alla peste. L’ultima epidemia di peste bubbonica in Europa (la peste di Noja) si è verificata nel 1815, in Puglia, a Noicattaro (Bari). Come è stata sconfitta, senza farmaci e vaccini?
«Ancora grazie alla prevenzione primaria (igiene personale e ambientale, ndr) e alla sanità pubblica (le regole comportamentali, ancora oggi in prima linea nella lotta al coronavirus, ndr). Non dimentichiamoci che nel nostro Paese gli Uffici di Sanità pubblica hanno origini antiche (si chiamavano Magistrature, non a caso, perché avevano anche poteri punitivi), nati grazie alla lungimiranza di chi, fin dal 1300, governava l’Italia (e non all’interno delle Università, che, peraltro, erano le prime in Europa). Il nostro Paese ha l’orgoglio di avere proposto, storicamente, un modello di prevenzione all’Europa che quest’ultima ha poi adottato. È l’Italia che ha fatto l’Unione sanitaria europea».
Un modello oggi disatteso, da noi, contro il Covid. E così?
«È così. Contro il coronavirus non ci può essere che una medicina pubblica e non privatistica».
Quindi le epidemie scompaiono anche grazie alla sanità pubblica. Ma quanto contano farmaci e vaccini?
«Contano tanto. In effetti la tubercolosi è stata sconfitta con i farmaci. Come l’altra epidemia del secolo, l’Aids. Per altre i vaccini hanno avuto la meglio».
Quanto è importante la globalizzazione nella diffusione di queste malattie?
«La globalizzazione c’è sempre stata. La peste nera del Trecento si era diffusa perché da un’economia agricola si era passati a una di scambio mercantile. Nella Spagnola ha contribuito la globalizzazione bellica della Prima Guerra Mondiale. E la lezione del coronavirus è cronaca di questi giorni».
Giovanni Ingrassia, medico palermitano del ’500 diceva che la peste va combattuta con «Oro, fuoco e forca». Ai tempi del coronavirus può essere tradotto in: «Incentivi del governo, amuchina e multe per chi trasgredisce alle regole». È così?
«Sì, è una bella chiosa. Sono d’accordo».
di Adriana Bazzi (Corriere.it)