Ormai la raccontiamo come una storia, una triste storia però che ha profondamente cambiato le nostre vite. Il 31 dicembre 2019 le autorità sanitarie cinesi hanno comunicato al mondo la presenza a Wuhan, città di 11 milioni di abitanti a più di mille km da Pechino, di un focolaio di sindrome febbrile associata ad una polmonite di origine sconosciuta. Il punto di partenza dell’infezione è stato identificato nel mercato del pesce e di altri animali selvatici vivi della città. Il 7 gennaio 2020 è stato isolato come responsabile dell’epidemia il coronavirus che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha chiamato SARS-CoV-2, mentre la malattia da esso causata prende il nome di COVID-19. Il 30 gennaio l’Istituto Superiore di Sanità ha confermato i primi due casi di infezione da COVID-19 in Italia e il 21 febbraio il primo caso autoctono. Da allora siamo tutti quotidianamente al corrente della diffusione dell’epidemia in Italia e nel mondo. L’11 marzo l’OMS ha dichiarato la pandemia.
Nel frattempo abbiamo imparato tante cose: che la malattia può presentarsi con sintomi assai lievi e che quindi si può essere infettati facilmente anche da persone con una leggera tosse, che le porte di ingresso sono bocca, naso e occhi, che per proteggersi è fondamentale mantenere la distanza tra persone e pertanto sono stati vietati gli assembramenti, chiuse le scuole e le università ed ogni tipo di manifestazioni o attività che prevedessero incontri comunitari, abbiamo, inoltre, imparato ad usare le mascherine per difendere noi stessi e nel rispetto della salute degli altri. Sono stati anche compiuti degli errori, ma anche da questi stiamo imparando.
E poi le prime osservazioni sul cuore. E’ stato osservato che il virus responsabile della COVID-19 penetra nelle cellule attraverso il legame con il recettore ACE-2 (enzima convertente l’angiotensina 2), recettore espresso sulle cellule del cuore, i cardiomiociti, nel rene, ma anche a livello dell’alveolo polmonare. Questo dato ha dato il via ad una serie di osservazioni.
La troponina ultra sensibile, marker specifico di danno miocardico che si trova elevato durante l’infarto, è di frequente aumentata nei pazienti con infezione acuta delle vie respiratorie da COVID-19. In un recente articolo che riassumeva il decorso clinico dei pazienti affetti, la troponina ultra sensibile era significativamente elevata in più della metà dei pazienti deceduti per la malattia. Il meccanismo del danno miocardico non è ancora compreso appieno, ma si ipotizza un danno “diretto”, non mediato dalle coronarie. Vista l’abbondante distribuzione del recettore per ACE 2 è stato ipotizzato che una miocardite, un danno infiammatorio diretto delle cellule del cuore, mediato dalle citochine che vengono rilasciate nel corso dell’infiammazione, possa spiegare in alcuni casi l’incremento della troponina, specialmente nei casi con comparsa di insufficienza ventricolare sinistra acuta. E’ sempre possibile che l’infezione sia un trigger della rottura di placca responsabile di un infarto acuto del miocardio di tipo 1 oppure che lo squilibrio tra apporto e domanda di ossigeno causi un infarto di tipo 2. Il solo incremento aspecifico della troponina però non giustifica per sé la diagnosi di infarto che i clinici pertanto debbono prendere in considerazione in presenza di modificazioni ecg, sintomi, segni e sulla base di considerazioni, appunto, “cliniche”. Non aumenta solo la troponina ma anche il valore dei peptidi natriuretici, BNP o NT-proBNP, markers di insufficienza cardiaca, incrementi che vanno presi in considerazione, parimenti a quanto accade per la troponina, in presenza di un corteo clinico/sintomatologico.
E infine poche parole sulla tanto dibattuta questione dell’assunzione degli ACE-inibitori o sartanici, farmaci comunemente utilizzati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Ci troviamo di fronte ad una vera controversia, vi sono infatti evidenze nelle due direzioni: che questi farmaci possano essere dannosi (provocando un’aumentata espressione dei recettori ACE 2 sulle cellule, porta di ingresso di SARS-CoV-2) o invece addirittura utili (mediando un’aumentata permeabilità vascolare polmonare ad esempio) nell’infezione da COVID-19. Entrambe le ipotesi sono supportate da modelli animali e l’ampia e a volte superficiale diffusione della notizia da parte dei grandi media ha gettato nello sconforto i pazienti che da anni assumevano queste terapie. La posizione delle società scientifiche mondiali di cardiologia sulla questione è che non vi sono ad oggi evidenze chiaramente documentate che Ace-inibitori e sartanici possano aumentare la suscettibilità a contrarre l’infezione e pertanto tutti coloro che assumevano questi farmaci debbono continuare la terapia per non perdere i consolidati e noti benefici cardiovascolari.
Antonella Labellarte
Da Centro per la lotta contro l’infarto