27 Aprile 2021

Durante l’emergenza sanitaria, diversi ospedali si sono ritrovati a dover ristrutturare la loro organizzazione interna con movimenti di postazioni letto e di personale specialistico ed infermieristico per accogliere il sempre più crescente numero di pazienti con infezione da SARS-CoV2. Questa diversa allocazione di risorse ha messo in seria difficoltà le normali attività di tutti i reparti ospedalieri, tra cui anche quelle dei servizi di cardiologia. In accordo con le linee guida promulgate in occasione della pandemia, procedure non urgenti come coronarografie elettive e trattamenti interventistici di valvulopatie hanno subito un brusco rallentamento. Il ritardo nella loro esecuzione, tuttavia, ha portato ad un aumento della prevalenza delle condizioni morbose come l’insufficienza cardiaca o la cardiopatia ischemica sintomatica, oltre ad un significativo aumento della mortalità cardiovascolare. Le attività ambulatoriali sono state sospese per lungo tempo a partire dall’esordio dell’emergenza sanitaria, e sebbene si sia dato grande slancio al ruolo della telemedicina, il follow-up di molti pazienti cardiologici è stato interrotto.

Nel corso delle diverse ondate, si è inoltre assistito ad un cambiamento del modo di vivere, caratterizzato da una limitazione dei contatti tramite il distanziamento sociale, dalla chiusura di varie attività e, nei casi più estremi, dai lockdown. Questo ha portato, soprattutto durante la prima ondata, ad un atteggiamento di diffidenza e timore nei confronti degli ospedali – sempre più spesso considerati come epicentro dei focolai dell’infezione – con un drastico calo del numero di pazienti che si sono rivolti ai servizi ospedalieri.

Per quanto riguarda i pazienti cardiologici, i dati dimostrano una drastica riduzione delle ospedalizzazioni per malattie cardiovascolari nei mesi di marzo e di aprile 2020. Secondo le indagini condotte da diverse società scientifiche e da alcuni centri, in quel periodo è stato registrato un calo degli accessi in Pronto Soccorso per dolore toracico e dei ricoveri per sindrome coronarica acuta che ha raggiunto il 50% in meno rispetto al 2019.
Questo non significa che durante il primo lockdown l’incidenza dell’infarto sulla popolazione fosse diminuita, bensì che la paura del coronavirus avesse interrotto il normale flusso di azioni che – partendo dal soccorso tempestivo attivato al momento della chiamata sul territorio o della presentazione in ospedale – di norma permettono di gestire in maniera ottimale un paziente critico. La conseguenza immediata è stata un peggioramento della prognosi, testimoniato dai dati sul numero di arresti cardiaci extraospedaieri che, in Lombardia, sono aumentati del 58% nei primi 40 giorni di pandemia rispetto allo stesso periodo del 2019.

In quel periodo è incrementato il numero dei cosiddetti “late presenters”, ovvero coloro che giungono all’attenzione medica a più di 48-72 ore dall’inizio dei sintomi. Questa titubanza ha comportato l’aumento dell’incidenza delle complicanze dell’infarto a breve termine (rottura di parete, aneurisma ventricolare, rottura di corda tendinea della valvola mitrale) a medio e a lungo termine (insufficienza cardiaca su base ischemica).

Le ospedalizzazioni per scompenso cardiaco sono diminuite a livello globale fino al 29% nel periodo che va dal 13 marzo al 30 aprile 2020, rispetto allo stesso periodo nel 2019 (come riporta uno studio Tedesco). La presentazione del paziente spesso tardiva e in condizioni cliniche scadenti, unita al grande carico di lavoro a cui è stato sottoposto il sistema sanitario durante la fase emergenziale, ha comportato, sempre secondo lo stesso studio, un aumento della mortalità di tali pazienti.
In uno studio danese emerge un calo del 47% delle diagnosi di fibrillazione atriale di nuova insorgenza, durante un periodo simile (12 marzo-1 aprile 2020, rispetto all’anno precedente). Anche la popolazione soggetta a diagnosi risultava differente: individui più giovani e con più comorbilità (storia di insufficienza cardiaca, stroke e cancro), questo probabilmente grazie a una sorveglianza sanitaria maggiore su questo tipo di pazienti. Tuttavia, nello stesso studio non si dimostra una significatività statistica nell’aumento degli eventi fatali correlati alla fibrillazione atriale. Si potrebbe ipotizzare che il fenomeno della mancata diagnosi si aggiunga ad un effettivo calo dell’incidenza.

In tal senso l’intensa copertura mediatica volta ad educare la popolazione verso comportamenti igienici adeguati, il distanziamento sociale e l’utilizzo delle mascherine potrebbero aver contributo alla riduzione della diffusione del virus influenzale sostenuta e alla minor incidenza di riacutizzazioni di scompenso cardiaco. Collateralmente però l’aver instaurato in alcuni uno stato di timore e diffidenza nei confronti dell’ospedale ha sollevato nuove problematiche che richiederanno in futuro l’attuazione di nuove strategie nel campo della prevenzione, diagnosi e cura.

Articolo tratto da DottNet.