Intervista al prof. Giuseppe Mancia

Pubblichiamo una lunga intervista al prof. Giuseppe Mancia (membro del comitato scientifico della nostra associazione) realizzata da Luca Giampieri per il quotidiano “La Verità”. Nella foto il prof. Mancia dialoga con il presidente di Comocuore, dott. Ferrari, nel corso di un evento promosso dalla nostra associazione.

Nel ripercorrere tra i ricordi la sua vita professionale, Giuseppe Mancia snocciola avvenimenti e date con una lucidità e una precisione insolite per un uomo prossimo agli 80 anni. «Gli esperti di ricerca sul decadimento cognitivo, uno dei campi più importanti, se si considera che alla mia età più di un terzo dei pazienti ne mostra i segni in modo clinicamente rilevabile, sostengono che tra i fattori determinanti ci sia uno scarso esercizio mentale. Ancora non ho di questi problemi».

Professore emerito all’ università di Milano Bicocca, presidente della Fondazione italiana per l’ipertensione e l’innovazione cardiovascolare, oltre che della Fondazione della società europea dell’ ipertensione, è stato recentemente incoronato dalla rivista scientifica Plos Biology come il ricercatore italiano più influente al mondo. La prestigiosa pubblicazione americana ha stilato una graduatoria di oltre 100.000 scienziati internazionali appartenenti a diversi ambiti disciplinari, prendendo in esame circa 7 milioni di lavori. «L’importanza di questa analisi», spiega il medico carrarese laureato cum laude nel 1964 all’ università degli studi di Siena e adottato da Milano nel 1966, «è quella di avere corretto alcuni errori del passato, escludendo per esempio le autocitazioni. È evidente che se una ricerca non viene citata da nessuno, beh, non è che abbia un grande impatto sull’ attività scientifica».

Al 246° posto nella classifica generale, Mancia balza all’ undicesimo per la cardiologia. Nel campo dell’ ipertensione arteriosa, il suo terreno di ricerca, è il massimo esperto al mondo.

Che significato ha questo riconoscimento?

«Da un punto di vista pratico, nessuno. Non sono alla ricerca di fondi. Sa, queste classifiche servono anche per il ranking universitario, condizionano i finanziamenti. Ma è sicuramente piacevole».

Qual è il valore aggiunto che conduce a un simile traguardo?

«Per me è stata la possibilità di avere grandi maestri, in Italia e all’ estero; fondamentali non solo per la bravura, ma per la generosità nel trasmettere le competenze. Poi c’ è la fortuna di operare in campi che nel tempo si rivelano fiorenti».

Nessun merito personale?

«Beh, quello di non essere uno sprovveduto nell’ interpretazione del dato e nella creatività. E la perseveranza.

La ricerca richiede un impegno continuo e totale».

Quante ore lavora al giorno?

«Tante, tantissime. Quando andai in pensione i progetti erano diversi. In famiglia si diceva: “Ora viaggiamo”. Sebbene io non concepisca le vacanze viaggiando, visto che lo faccio in continuazione, l’ idea di togliersi qualche sfizio c’era. Ma i ritmi non sono cambiati granché. Finché la salute lo permette, bisogna darsi da fare».

Si dice che i medici siano ipocondriaci.

«Un po’ lo sono anch’io, confesso. Siamo portati per natura ad analizzarci. La molteplicità delle possibilità è uno spauracchio, e sono sempre le più nefaste a venire in mente per prime».

Mi dica una caratteristica che a un bravo ricercatore non può mancare.

«L’onestà».

Spieghi.

«Nell’approccio al dato, nella rigorosità dell’analisi: non enfatizzare l’importanza di ciò che si è scritto. Molti ricercatori finiscono sui giornali prima ancora che il dato venga pubblicato, fanno conferenze stampa magnificando le implicazioni del risultato per la salute pubblica. La vanità dello scienziato si sposa con l’ansia da scoop del giornalista».

A proposito di salute pubblica: sul Coronavirus che idea si è fatto?

«Preferirei non rispondere, essendo la mia competenza sul campo limitata. Un aspetto che, a mio avviso, andrebbe arginato è quello della tuttologia: in Italia tutti parlano di tutto».

È preoccupato?

«Certo. Il mio più grande timore è che si arrivi a un numero di persone bisognose di assistenza intensiva al di là delle le strutture. Ciò comporterebbe scelte dolorosissime, come curare solo i giovani lasciando gli anziani al loro destino. Sarebbe devastante. Ecco perché sono necessarie misure drastiche finalizzate all’isolamento epidemiologico».

Ma noi italiani siamo abbastanza responsabili per adeguarci?

«La storia sembrerebbe dirci che un popolo indisciplinato sotto ogni aspetto dovrebbe esserlo anche in una situazione di emergenza sanitaria. Poi, però, sappiamo smentirci: ad esempio, siamo la nazione che più fedelmente ha seguito le norme antifumo».

Insomma, dobbiamo annusare la paura per seguire le regole?

«È proprio così. Per esperienza, posso dire che l’unico momento in cui bisogna essere crudeli con il paziente è quando si teme che addolcendo la pillola questi non faccia gli esami, o rimandi un intervento chirurgico. Ecco, adesso è il momento in cui essere crudeli con gli italiani».

Si è parlato molto della ricercatrice precaria assunta allo Spallanzani dopo avere isolato il virus. È la fotografia del Paese?

«Far passare l’idea che un precario arrivi all’ assunzione isolando il virus, dunque compiendo qualcosa di straordinario, è un pessimo spot. L’ assunzione dei ricercatori meritevoli non dovrebbe essere una lotteria».

Ai suoi tempi era più semplice?

«Una certa aleatorietà è sempre esistita, ma eravamo inseriti in una struttura solida. Questo oggi manca, ed è inaccettabile. L’ uomo è un’entità concreta, ha bisogno di stabilità».

Dai suoi maestri cos’ha imparato?

«L’ autostima. In questo, il sistema americano ha da insegnarci. Quando parte un progetto, la responsabilità è del ricercatore; se ha successo, si prende tutti i meriti. La sicurezza che questo metodo infonde è cruciale in un’attività dove si lavora a lungo ignorando i risultati».

Tuttavia, l’Italia rimane una fucina di eccellenze.

«Indubbiamente, ma non durerà in eterno. Col tempo, la mancanza di mezzi e persone causerà inevitabilmente una flessione del livello di eccellenza. E poi siamo il Paese dei sieri antitumore e delle cure stregonesche che, altrove, non avrebbero la minima chance di emergere. Qui attizzano polemiche sociali, generano dibattiti parlamentari».

Perché?

«Forse perché da noi la cultura ha sempre preferito gli aspetti umanistici a quelli scientifici. Un nostro uomo politico sorpreso a sbagliare un verbo latino viene crocifisso sui giornali; se non sa cosa sia l’atomo non importa a nessuno».

Sarà che ci distinguiamo anche per gli amuleti e lo sfregamento subinguinale?

«Altroché. La lettura dell’oroscopo al mattino è un momento di informazione, non di divertimento».

Senta, cosa la affascina di più del suo lavoro?

«È una sfida avvincente che non si ripete mai. Pensi a quando si manda uno studio a una grande rivista e si viene revisionati da 4 o 5 revisori anonimi: possono distruggerlo, chiederti ulteriori analisi. È una battaglia che può andare avanti per mesi».

Parlando di battaglie, lei si è concentrato sullo studio di una patologia che è la prima causa di morte al mondo.

«Tra i soggetti anziani, il 60 per cento ha un’ ipertensione che costituisce il primo fattore di rischio per tante malattie sociali: ictus, scompenso cardiaco, infarto, demenza. Di questi, nel mondo solo il 15 per cento raggiunge il valore di controllo. L’ eterno problema è la bassissima aderenza alla terapia: oltre un terzo dei pazienti in cura per ipertensione non segue le prescrizioni del medico».

Nel quotidiano, quali misure sarebbe bene adottare?

«Ridurre il consumo di sale e alcolici, preferire i vegetali alle carni, mantenere un peso corporeo adeguato, fare esercizio fisico, abolire il fumo».

È vero che, un tempo, si riteneva che il fumo contribuisse ad abbassare la pressione?

«Sì, ciò era associato al fatto che i fumatori sono generalmente più magri dei non fumatori. Ovviamente non è così. Quando si fuma, la pressione aumenta anche di 20 millimetri di mercurio».

Sosteneva Guido Clericetti, scrittore e disegnatore: «Al contribuente aumenta la pressione arteriosa ogni volta che aumenta la pressione fiscale». Ha mai pensato di studiare la correlazione tra i due fenomeni?

(Sorride). «Certo, uno stress acuto è fonte di ipertensione. Per esempio, il mio gruppo definì per la prima volta l'”effetto camice bianco”. Registravamo i valori del paziente nelle 24 ore con un minicatetere in arteria; poi chiedevamo al medico di andare a misurare la pressione. Nel vederlo, si verificavano aumenti fino a 80 millimetri di mercurio».

L’elenco delle sue onorificenze è interminabile. Di quale va più orgoglioso?

«Il premio Invernizzi, nel 2001, considerato il “Nobel italiano”».

Degli studi che ha condotto, invece?

«Direi quello sul monitoraggio ambulatorio della pressione alla fine degli anni Settanta, con la misurazione nelle 24 ore nei soggetti liberi di muoversi. Uno studio citatissimo. Siamo stati noi i primi, al Policlinico di Milano; oggi è una procedura fondamentale nella diagnosi dell’ipertensione».

Ho letto che, da giovane, è stato un abile velocista.

«Vinsi i campionati studenteschi nel 1957 stabilendo il record italiano: 10”07 nei 100 metri. Gran tempo. Livio Berruti aveva vinto l’anno prima facendo 10”08. Detto questo, le mie affinità con Berruti finiscono qui, visto che tre anni dopo lui divenne il più grande sprinter mondiale».

Rimpianti?

«Lasciare fu un grande dolore. Per i miei genitori era una perdita di tempo. Resta un bellissimo ricordo. L’ atletica è uno sport meraviglioso perché insegna a vincere, ma anche a perdere. Non esistono polemiche o arbitri da invocare».

Alla soglia degli 80 anni, qual è il suo bilancio personale?

«Non ho avuto il tempo di farlo. Troppo assorbito dalla ricerca e dall’editoria, essendo anche il direttore del Journal of hypertension, seconda rivista al mondo per l’ipertensione. Archiviata l’editoria, mi dedicherò al bilancio».